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sabato 16 gennaio 2010

Fumetto: Dylan Dog- Mater morbi

DYLAN DOG 280 – MATER MORBI
Sceneggiatura di Roberto Recchioni, disegni di Massimo Carnevale.Commento di Mindtheclosure.
Non ho mai letto John Doe. Il motivo, credo, è lo stesso per cui Raz Degan non beveva Jegermeister. Non c’è un reale motivo. Tra l’altro in molti me ne parlavano e pian piano la mia curiosità cresceva, ma per un motivo o per l’altro non mi è mai capitato di leggerlo. Forse forse la cosa che più mi ha convinto a leggerlo è il grande scalpore che ha scatenato la notizia della sua chiusura. Nonostante questo, benché più convinto, non ho ancora mai letto John Doe.
E, nonostante il prestigio di cui goda in patria, non ho mai letto nulla di Roberto Recchioni. Per caso.
Per caso l’altro giorno sono al supermercato e mi accorgo che tra le riviste c’è il nuovo numero di Dylan Dog, Mater Morbi.
Mater Morbi è la prima storia lunga (preceduta da quella breve per il Dylan Dog Color Fest) dell’investigatore dell’incubo scritta da Roberto Recchioni; ne ho sentito parlare a destra e a sinistra e così, incuriosito e nostalgico dell’old boy che non incontro da qualche anno, decido di prenderlo.
Definirlo una folgorazione forse rischia di essere un po’ eccessivo, ma se – ricordo – gli ultimi numeri che avevo letto mi portavano, ad un certo punto, a voler arrivare in fondo il prima possibile per il tono un po’ troppo leggero della storia, Mater Morbi, al contrario, mi richiedeva di rallentare la lettura, di spezzarla anche, magari, per dargli modo di lievitare negli intervalli tra un gruppo di pagine e l’altro.
Partiamo da una considerazione oggettiva: Mater Morbi è una bella storia, di come su Dylan Dog non se ne legge da diverso tempo.
Di come su Dylan Dog non se ne è mai lette, in un certo senso. Molte storie belle, molte storie sicuramente diverse, anche se appesantite a lungo andare dall’imprinting editoriale, molte storie che in realtà parlavano d’altro, ma non come questa.
Mater Morbi è una storia su due livelli che si intrecciano; il primo ha a che fare con una oscura malattia di Dylan; l’altro, invece, si direbbe più un ambiente interiore, che si manifesta quando Dylan perde conoscenza. Su questo doppio livello si costruisce l’incubo, che ritorna dopo tanta assenza su queste sponde.
L’incubo vero, quello che non deve essere necessariamente mostruoso, gotico, o sensualmente pericoloso (sarebbe probabilmente funzionato anche se l’avversario di turno non fosse stata una dark lady ma un omaccione o un uomo qualsiasi, medio), non è qui il significante ma il significato a generare l’incubo. L’incubo vero, quello attraverso cui alcuni (tra cui lo stesso autore) sono passati, quello che se ci penso io, se ci pensi tu che stai leggendo, ci prende l’ansia e rischiamo di non dormirci la notte, perché l’uomo moderno è ipocondriaco (e i motivi per esserlo ci sono) e basta l’idea della malattia per agitarlo; del resto basta vedere il caos generato attorno all’H1N1, la cui vita mediatica è stata forse addirittura più lunga della sua vita biologica e, certamente, più lunga delle sue conseguenze. Ma qui si divaga.
Con Mater Morbi, Dylan Dog si butta alle spalle annate di storie “storte” per ritornare a parlarci del nostro orto, tornando a giocare con le paure della popolazione, che se all’esordio erano la criminalità e gli omicidi (accuratamente filtrati dalla patina horror che godeva di gran successo in Italia) adesso sono, più concretamente, malattia e morte, sanità e malasanità, senza stare a fare elenchi dei fatti di cronaca medica o epidemica degli ultimi 10-20 anni.
Che poi, una volta conclusa la lettura, mi è venuto da pensare che accanto alla paura della morte stia anche la paura della vita, la paura di stare immersi in questo stato di cose troppo a lungo. La paura della vita perché è nella vita che l’uomo è vittima della malattia, la morte è solo assenza.
In tutto questo sono di grande aiuto i disegni di Massimo Carnevale, potenti ed efficaci, amplificano il senso di paranoia e di vertigine della narrazione e riescono a ritrarre un Dylan Dog straziato da una malattia, segnato… lo si direbbe quasi invecchiato, da certe inquadrature. Il potere oscuro della malattia, in grado di invecchiare anche chi non invecchia mai.
Pregevolissime, infine, le tavole acquerellate, che fanno rimpiangere l’assenza del colore.
Una cosa che mi è piaciuta particolarmente è il modo in cui Recchioni decida di mettere in gioco il personaggio. Il cliente questa volta è Dylan stesso, l’indagine lo riguarda direttamente ma non è un’indagine in cui ha scelto di imbarcarsi, è che non aveva altre possibilità. Tra l’altro è notevole il colpo basso che l’autore gioca al protagonista aggredendolo in uno di quei momenti di erotica virilità cui l’editore ci ha abituato nel corso di questi venti e più anni, proprio al termine di una sequenza narrativa che decostruisce il personaggio: «C’è stato un tempo in cui avevo un nome… / C’è stato un tempo in cui avevo un lavoro… / C’è stato un tempo in cui ero un uomo… qualunque cosa questo significhi».
Alla malattia, dunque, non si può resistere né si può sperare di vincere. La chiave di lettura si gioca ancora tra la paura della morte e la paura della vita, tutto sommato. Se la malattia non si può vincere, quindi. La cosa migliore è imparare a conviverci.
In tutto questo io ci vedo una speranza di rinnovamento del fumetto popolare italiano. Chiamatemi sognatore, visionario, pazzo.
Probabilmente i lettori di John Doe avranno da ridire, probabilmente per molti Recchioni e Carnevale hanno rifatto John Doe.
Harry Naybors (che è persona molto precisa e acuta e che credo dovremmo tutti leggere) parla di fronte a una «(discreta) storia di John Doe che rassicura i fan di Dylan Dog, per quanto Recchioni vorrebbe convincerci del contrario. Certo, è vero, Dylan Dog parla come Dylan Dog, reagisce come Dylan Dog, pensa come Dylan Dog, ha i riferimenti di Dylan Dog. Ma è John Doe».
Un dittatore, del resto, diceva che John Doe non suona un clarinetto del cazzo (cit.). Io, che non ho letto John Doe (anche se ora la voglia è tanta, lo so, per molti sarà uno stigma ma del resto non si nasce tutti con la saggezza innata) e che negli anni addietro ho letto parecchio Dylan Dog. John Doe, per quanto bello, non ha avuto e non avrà il bacino di utenza di Dylan Dog. Se il risultato è questo allora che Recchioni e chi altri come lui (nella speranza che sbuchino) continuino a fare un John Doe travestito da Dylan Dog, se può servire ad “ambientarli”; poi inevitabile sarà un aggiornamento, una svolta.